blackbirdonline journalSpring 2023  Vol. 21  No.3
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back FABIO PUSTERLA

Ambulando Solvitur
per Dan

Poco fa, il piccione impazzito: l’ho visto arrivare velocissimo, dal basso, agitando le ali, e urtare violento contro il vetro della finestra, lasciando poi, dopo l’improvvisa giravolta, un alone come di fiato o di sudore o di polvere. E per un istante ho temuto che lo schianto potesse ucciderlo, e ben altro rimanesse in bella vista sopra il vetro. Presagio di qualcosa? Minimo contrattempo che apre una giornata simile ad ogni altra? Proprio così, in ogni modo, salgono alla mente talvolta i ricordi che sorprendono, imprevisti; salgono da non si sa dove, da un recesso o da un abisso memoriale, e battono ai vetri della coscienza perturbanti, per un istante sottraendosi all’oblio.

Pochi giorni or sono, per esempio, la domanda quasi casuale di Piergiorgio: se ricordavo il tale, e le sue antiche incisioni di violenza, i ghirigori che inneggiavano alla guerra scolpiti su banchi, porte, panchine. Se lo ricordo? Certo, e in modo vivido; anche se non ci pensavo da tempo, e le sue ultime notizie viaggiavano anni fa sui fili del telefono: chiamava, l’antico amico da molto tempo lontano, da una città del sud. Grande ufficiale, adesso, di un esercito, coronamento forse trionfale del sogno durato molti anni; ma un sogno che all’epoca della nostra amicizia e dei suoi graffiti era cupo e distante, impossibile anche solo da sognare, come i sogni di quasi tutti a quell’età di rabbie e sbandamenti, erosioni, indefiniti progetti, rinvii. Eccolo che scompare, come il piccione di prima. Ma, per chissà che cieli, la sua riemersione ha portato con sé qualcos’altro, anche più indefinito e vago. Vetri che vibrano al passaggio di treni, cozzi sordi di vagoni merci sui binari; e soprattutto un’eco di passi, il respiro appena più rilevato di chi cammina da qualche tempo, senza una direzione precisa.

Siamo in una pianura, adesso, priva di contorni; c’è della nebbia che sale dal terreno, le linee orizzontali dei campi in un autunno inoltrato. I colori: il bruno, il verdastro, e soprattutto il grigio; la terra su cui si passa è irregolare, a zolle e solchi, coperta di stoppie bruciate; si cammina sopra sentieri che sembrano argini, o tracce lasciate da carri e trattori, o prima ancora da buoi e da cavalli. Si cammina senza sapere dove si va, per il gusto o il disgusto di andare, fuggendo qualcosa; incrociando talora una piccola carrozzabile, o il sottopasso dell’autostrada che attraversa questi immensi territori, o ancora il recinto di un deposito o officina dove latra un cane lupo alla catena. A tratti, brevi fossi o canali gracidanti, uomini sull’altra riva, con canne da pesca, secchi e cappelli, che non alzano neppure lo sguardo. Le zolle, i solchi nel terreno duro, i ciuffi: da ogni cosa sale un odore monotono, antico, di agricoltura lombarda. Distante, qua e là balugina qualche marcita, come miraggi o fantasmi svettano un traliccio dell’alta tensione, la torre metallica di uno stabilimento petrolifero, il rosso camino delle fornaci in disuso. Camminare così, in questi luoghi, si può farlo soltanto senza scopo, o con l’unico scopo di andare. Andare dove? Appunto: in nessun posto. Andare per andare, per sentire nel corpo il movimento e l’esilio, la distanza e la prossimità. La raggiera di campi e di orizzonti, il profumo di terra e animali scomparsi, il profilo delle case sul bordo di qualcosa, i rumori di chi vive laggiù: ogni cosa è nota e saputa al viandante, come se anche lui un tempo fosse parte di ciò che ora attraversa; e ogni cosa è negata a chi per un giorno o una vita si fa nomade, e lascia tutto alle spalle o dentro gli occhi.

Camminare è anche questo, abbandonare, traversare, trascorrere. E riconoscere, anche: con stupore e nostalgia. Quella parete di legno, quell’assito, il profumo di soffritto che esce da una finestra socchiusa, il chiodo piantato nel tronco, per il filo del bucato, la geometria imperfetta di un orto, l’odore del fico e dei conigli: tutto è lì, sempre uguale a se stesso, come un lontano deposito di senso dentro il corpo immane del mondo. E si è già altrove, inghiottitti dalla nebbia, dai rumori degli autotreni che rombano dietro il velo di foschia; è bastato un avvallamento inatteso, un filare di pioppi, a cambiare scenario e a rigettare nell’informe, a cancellare. Chi cammina si scrolla di dosso molte cose, passando lentamente attraverso il tempo del respiro e dello sguardo. Ambulando solvitur: questo voleva dire l’altro amico, che con il suo sorriso quasi mesto invitava alla fiducia, senza sapere eppure già sapendo quel poco che serve davvero? E da quanto tempo, poi, si va camminando. Da quanto tempo. Per montagne e per valli, per pianure e posteggi, lungo strade e sentieri, o senza strade e senza sentieri, talvolta in compagnia, più spesso soli: e allora, solvitur davvero? Chissà. Sempre in cammino, però, con poche soste: vorrà pur dire qualcosa.

Poi, quell’antico assioma da libri d’avventura: che chi vaga in una foresta, smarrito e senza punti di riferimento, tende a poggiare sulla sinistra senza neppure rendersene conto, disegnando dapprima un impercettibile arco di circonferenza che inesorabilmente lo riconduce prima o poi al punto stesso da cui era partito, nel cuore smemorato del proprio smarrimento. Ma se è così, e se il camminare di cui qui si ragiona non può darsi senza appunto uno smarrimento, un’assenza di meta: il solvitur sarebbe dunque un ritorno all’indietro, un avvitamento su di sé, una prigionia odiosa? E colui che invece vede la sua meta, e non cammina ma va, si dirige: lui, sì, potrebbe uscire dalla boscaglia, oltrepassare un confine, mettersi definitivamente al sicuro? E d’altra parte: perché si poggia sempre a sinistra? È il cuore, con il suo battito, a chiamare, o un magnetismo anche più vasto, che ci sfugge, un circuito cerebrale ancora ignoto? Avere una meta impone direzioni, fretta, itinerari prefissati, calcoli; e chiede dunque di non cedere al caso e alla voce profonda che chiama silenziosa. Massima concentrazione sul percorso, massima sordità alle diramazioni laterali, agli sbandamenti, alle tentazioni. E allora forse chi va verso la meta si impedisce di vedere molte cose; il caminante di Machado, invece, parte dal presupposto che non esiste cammino prefissato: se hace camino el andar.

Poi a volte, dentro un vasto paesaggio sigillato e quasi ostile, a grandissima distanza, in paesi stranieri dalle lingue misteriose, può capitare agli smarriti di imbattersi in brevi tratti di terra conosciuta, improvvisamente ospitale: una radura, un macchione di robinie, la lunga fila di solchi dentro un campo, una sfumatura del terriccio o delle case, l’odore del catrame. Un dettaglio che riporta all’esperienza, al ricordo confuso di qualcosa; un posto che si sa come toccare, uno scalino su cui il piede poggia istintivamente con naturalezza, un nome che si capisce e che placa per un attimo lo spaesamento. Cos’è questa cosa, se non il senso di sé, il riconoscimento di un altro cammino percorso molto tempo prima, e inciso dentro di noi, la memoria implicita di un tepore che riemerge? Questo, mi dico, è il senso della lingua che diciamo materna: il posto in cui siamo a casa, il ritmo delle parole che è nostro da sempre, il colore dei suoni e delle sillabe. Non i significati, che mutano, non l’eleganza o la logica; il ritmo, invece, il battito della lingua, la cosa che ci fa poggiare a sinistra, l’odore della terra su cui ci siamo una volta per tutte sdraiati, il pulsare del sangue e lo scorrere dell’acqua. Chi ha la sua meta usa la lingua per andare, le strade della sintassi per correre veloce; chi non ha meta sta dentro il linguaggio, vaga dentro il linguaggio come dentro la pianura sconfinata, le foreste più nere, la balbuzie. E se piega a sinistra non torna esattamente su di sé; ritrova a volte invece, nello smarrimento, la memoria di sé, inscritta nel linguaggio, strani simboli sulla corteccia di alcuni alberi, segnali; la coscienza del proprio essere e del proprio non essere lì, ma sempre altrove. Né lì, né in nessun luogo, eppure ugualmente in tutti i luoghi, perché stare dentro il linguaggio forse vuol dire soltanto camminare, incontrare gli altri e abbandonarli dopo un tratto di cammino, portando con sé le loro voci, i frammenti di storie, le immagini.

Cammina cammina . . . poche formule narrative sanno più di questa condensare il senso avventuroso del viaggio a piedi; perché sempre, dopo il cammina cammina, la favola propone l’imprevisto, il pericolo o l’avventura, l’avvenimento o l’incontro che scuote e rovescia. A volte il camminante può illudersi di sapere dove va; ma il cammina cammina esclude ogni certezza, inganna le carte topografiche; il cammino è il tempo che passa e attraversa lo spazio, la lingua che ci porta lontano e ci fa ritrovare quel che avevamo scordato di aver perso e non cercavamo più. E allora il solvitur forse non è dimenticanza o sollievo, ma rinnovata coscienza, attenzione più intensa sulle cose che solo il ritmo lento della marcia silenziosa ci mostra finalmente nella loro vera luce: quell’acero che appare sulla pista e ora ci riempie lo sguardo, maestoso, tra poco svanirà dietro una curva, e solo rimarrà nella memoria, come un frammento di bellezza, pronto a riemergere più in là, quando sarà una quercia a sfavillare, o un tronco bianco di betulla o la vampa argentata di un faggio. Se chi cammina così nel linguaggio si è smarrito per selve e sabbioni, come l’antico pellegrino d’oltretomba, i volti e le figure che incontra, gli animali e gli arbusti, i paesaggi, altro non sono che parole, le parole di sempre, che adesso si schiudono in una luce più grande, si fanno guardare come se echeggiassero per la prima o per l’ultima volta; e le parole ritrovate si dispongono lentamente in un discorso che è il camminare stesso, il ritmico alzarsi e posarsi dei piedi che attraversa le estensioni del linguaggio e dà loro vita, voce, pronuncia. E così, per un momento, le parole sembrano poter toccare davvero le cose, dire pane, pelle, occhio o sorriso; dire fiore o sconforto, paura; il linguaggio si è fatto parola, scintilla che scocca e si perde; e per questo ogni volta il cammino riprende, alla ricerca della voce che fugge. E poi è la parola stessa, cammino, a venire da antiche foreste del nord; ha attraversato un continente boschivo e selvaggio, ha guadato fiumi e traversato paludi e laghi; da qualche parte, lungo sentieri o carrarecce, ha incontrato uomini vaganti o soldataglie, fuggiaschi o predatori, mendicanti, e il loro latino volgare meravigliosamente imperfetto, entro cui si è addentrata per giungere fino a noi, passo dopo passo, con la lanterna dei viandanti in una mano, un bastone nell’altra.  


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